Di una cosa sono assolutamente certo: tutte le persone sono passate inevitabilmente da un loro momento psicotico. Tutti, infatti, hanno durante i primi due anni di vita oltrepassato una fase di totale incertezza, che può essere stata un’incertezza assoluta, molto pericolosa specialmente per la sopravvivenza.
Basta anche stare un solo attimo senza la mamma che fino ad allora è stata sempre presente e ti ha protetto da qualsiasi pericolo, oppure nascere e stare subito male, o finire in un’incubatrice per un lungo periodo senza nessun contatto materno corporeo, verbale e non verbale: la situazione può diventare subito drammatica e molto pericolosa.
Si possono presentare situazioni in cui una madre soffre di depressione post partum, una depressione improvvisa e fulminea che la porta a perdere anche solo temporaneamente la sua sintonizzazione con il figlio. Questo stato improvviso di malessere può provocare nel neonato, che in quel momento subisce la perdita e l’abbandono, anche solo temporaneo, un vissuto profondo di rifiuto.
Il neonato prova allora una profondissima paura di morire, che diventa subito un imprinting, perché per quegli attimi iniziali il bambino è privo di difese, diventa vulnerabile, assolutamente solo e in preda al terrore della morte. È in grado di sentire quella sensazione di poter morire, di non farcela, che non c’è più niente da fare.
Il neonato percepisce il pericolo quando, anche solo per poco tempo, perde totalmente la protezione materna o quella di un qualsiasi altro caregiver che si rispetti. Ma la mamma è una sola, e il caregiver può essere sufficiente, ma non sarà mai come la mamma. La mamma è unica e rimane sempre unica.
Spesso i pazienti non riescono a spiegarsi cosa possa essere successo da zero a due anni, quando ancora non potevano parlare perché non si era sviluppata la struttura cerebrale che permette il linguaggio. In quei momenti non si riesce a regredire attraverso la memoria in modo consapevole, ma può esistere una memoria emotiva legata al corpo, una memoria di emozioni profondissime e inquietanti.
Questa memoria può emergere attraverso un trigger: uno stimolo attuale che fa rivivere un evento traumatico o doloroso. Il trigger può essere un’immagine, una parola, un suono, un odore o un comportamento che, anche dopo 40, 50 o 60 anni, ti riporta diretto a quell’emozione profonda e terribile, quando il corpo trema e la paura è quella della morte, senza nessuna via d’uscita verso la vita.
È questa la sensazione che dobbiamo portare in diretta al paziente durante la psicoterapia, che per essere efficace deve essere quanto più possibile didattica.
Parlo sempre ai miei pazienti scompensati, o anche solo parzialmente scompensati, che a volte devono ricorrere agli psicofarmaci perché non reggono una paura così devastante. Racconto loro che è come se, ancora implumi e non pronti, fossero caduti dal nido dove la loro mamma uccellina li proteggeva, ritrovandosi improvvisamente sperduti in una foresta, piena (nella loro percezione distorta) di animali predatori pronti a ucciderli.
Il fattore sorpresa è determinante in senso negativo. Il bambino, fino ad allora protetto, si ritrova di colpo senza protezione, totalmente indifeso e impotente, come paralizzato dopo essere entrato in una vasca di acqua bollente. La parola giusta è impotenza, totale impotenza. Non ha avuto tempo di sperimentare situazioni simili che gli avrebbero permesso di cavarsela.
Antonello Correale, nel suo libro La potenza delle immagini, descrive situazioni drammatiche dove si è nell’impossibilità di reagire, costretti a subire un abuso senza potersi difendere. In quei momenti, si vive la paura più devastante: la paura di morire, che sembra non finire mai e lascia la persona in uno stato di totale impotenza e disperazione.
Ricordo un paziente che, in adolescenza, viaggiò in autostop da Napoli a Londra. In Olanda, dopo essere salito su un’auto, si addormentò e si svegliò fermo fuori autostrada, invitato dal conducente a entrare in casa. Lì provò un terrore paralizzante, convinto che lo avrebbero ucciso. Fortunatamente non accadde nulla, ma quell’evento divenne un trigger che risvegliò emozioni antiche e profonde di morte.
Questo tipo di esperienza, soprattutto quando vissuta nei primi anni di vita, lascia un’impronta indelebile. Anche esperienze successive, come quella raccontata da un altro paziente smarritosi in un bosco da bambino, possono riattivare antiche paure di abbandono e morte, che si fissano nel corpo e nella psiche.
Un altro esempio emblematico è quello di una madre che va improvvisamente in ospedale per la nascita di un fratellino, senza aver preparato adeguatamente il figlio. La sparizione improvvisa della madre può essere vissuta dal bambino come un definitivo abbandono, anche se circondato da altri caregiver. Ma quando un bambino è abituato all’odore, al calore, alle braccia della propria madre, perderla di colpo può essere insopportabile.
La psicosi nasce proprio quando un bambino perde improvvisamente la madre o chi l’ha sempre protetto e non ha ancora raggiunto una costanza interna dell’oggetto – secondo Mahler e Bowlby – cioè la sicurezza di una base stabile e rassicurante. È in questo momento che il corpo sente, attraverso ogni fibra, la certezza di essere in pericolo di vita.
L’esperimento “Still Face” di Edward Tronick lo dimostra chiaramente: basta che la madre, anche solo per pochi istanti, smetta di interagire in modo empatico e il bambino entra immediatamente in uno stato di panico e disperazione, mostrando come la paura di morire sia profondamente radicata già nei primi mesi di vita.
Quando il bambino non trova più protezione, scoppia a piangere, si inarca e diventa paonazzo: tutto il suo essere urla il terrore della morte imminente. È questa sensazione che può fissarsi nel nucleo più profondo della psiche, diventando la base della futura struttura psicotica.
Questa emozione terribile può riaffiorare anche da adulti, in forme diverse: attacchi di panico, stati depressivi profondi, dissociazioni. Tutti sintomi di una parte bambina rimasta congelata a quell’evento originario di terrore e abbandono.
La psicosi, in questo senso, è un tentativo estremo di sopravvivenza: il bambino cerca di aggrapparsi disperatamente a qualsiasi cosa (persone, oggetti, riti) per ricreare quella protezione perduta. Ma così facendo perde il contatto con la realtà, entra in una dimensione di fusione e confusione, dove l’identità si disintegra.
n questi stati, la realtà non è più percepita come prima: la persona cerca una “mamma” ovunque, in oggetti, suoni, odori, persone, pur di non sentirsi più sola e abbandonata. Questo è il cuore della psicosi: il bisogno vitale di aggrapparsi a qualcosa che offra protezione, anche a costo di perdere la propria individualità.
Il bambino psicotico si fonde con ciò che trova, perde sé stesso, entra in uno stato di annientamento e vive in un mondo dove i confini sono sfumati, tutto è confuso e caotico. I pazienti raccontano questa esperienza con parole tremende, descrivendo un vuoto cosmico e la scomparsa di ogni sicurezza.
La parte adulta del paziente ha un ruolo cruciale: deve imparare a prendersi cura della parte bambina spaventata, diventare quella “mamma” interna che offre protezione e rassicurazione quando emergono le paure profonde.
l lavoro terapeutico è quindi centrato su questo: rafforzare la parte adulta del paziente affinché possa accogliere, rassicurare e contenere la parte bambina abbandonica. La psicoterapia psicoanalitica ad orientamento relazionale è particolarmente efficace perché insegna al paziente a dialogare con le sue parti interne, creando così un nuovo equilibrio.
Un paziente mi raccontava di come, dopo anni di terapia, era riuscito a gestire episodi di solitudine improvvisa, come quando aveva accompagnato sua moglie all’aeroporto e, rientrato a casa, aveva sentito riaffiorare una sensazione di fragilità e depressione. Questa volta, però, la sua parte adulta era intervenuta subito a rassicurare la parte bambina, evitando così uno scompenso.
La psicoterapia aiuta proprio in questo: a rendere la parte adulta sempre più forte, capace di sostenere le emozioni più dolorose senza lasciarsi sopraffare.
Il corpo gioca un ruolo fondamentale: è il primo a mostrare i sintomi quando emerge la paura. La psicosi primaria, infatti, si manifesta inizialmente attraverso il corpo, perché nei primi due anni di vita il bambino non ha altri strumenti per esprimere il proprio disagio.
Anche un piccolo scompenso ha a che fare con la paura di morire. La differenza tra un micro-scompenso e uno grave sta nell’intensità della paura e nella forza della parte adulta nel contenerla. Quando questa parte adulta è debole, la paura prende il sopravvento e il paziente può vivere stati invalidanti, come ansia, angoscia, attacchi di panico, fino a dissociazioni e depersonalizzazioni.
Il processo terapeutico è lungo e richiede pazienza e perseveranza, ma è un viaggio fondamentale per tornare a vivere pienamente e liberarsi da quella paura atavica che ci ha segnato così profondamente.
A volte, la paura di morire è così radicata che il paziente ha bisogno di supporto farmacologico per poter affrontare la terapia. Gli psicofarmaci, usati in modo mirato e sotto la guida di uno psichiatra esperto, possono essere un valido aiuto per stabilizzare le emozioni e permettere al paziente di lavorare su di sé in modo più efficace.
È importante ricordare che ogni paziente ha il proprio tempo e il proprio percorso: non esistono soluzioni universali o percorsi predefiniti. Ciò che conta è la motivazione e la forza interiore per affrontare il viaggio dentro di sé, accompagnati da uno psicoterapeuta preparato e senza paure psicotiche irrisolte.
Alla fine di questo percorso, l’obiettivo è aiutare il paziente a diventare davvero adulto, capace di gestire autonomamente le proprie emozioni e le proprie paure, con una parte adulta solida che guida e rassicura le parti più fragili.
Questo lungo viaggio nella profondità delle paure infantili ha un messaggio di speranza: anche chi ha vissuto esperienze traumatiche e porta dentro di sé un nucleo psicotico può, con pazienza e lavoro terapeutico, passare dal buio alla luce, trovare quella serenità che sembrava irraggiungibile.
Diventare adulti significa aver superato le paure delle parti bambine, averle integrate e trasformate, fino ad avere il comando della propria vita psichica. È un percorso lungo e impegnativo, ma possibile.
Coraggio, il viaggio è lungo ma ne vale la pena. Solo alla fine ci si rende conto di quanto sia importante arrivare fino in fondo, quando finalmente si è padroni di vivere nel mondo adulto senza più essere ostaggio delle proprie paure più profonde.
BIBLIOGRAFIA
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Antonello Correale. La potenza delle immagini – l’eccesso di sensorialità nella psicosi, nel trauma e nel borderline. Mimesis/Attualità del pensiero psicoanalitico. Milano, 2021.
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Donald Winnicott. Sviluppo affettivo ed ambiente, Armando Editore, Roma, 1974.
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John Bowlby. Una base sicura. Raffaello Cortina Editore, 1989, Milano.
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Clara Mucci. Corpi Borderline, regolazione affettiva e clinica dei disturbi di personalità, Raffaello Cortina Editore, 2021, Milano.
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Renè A. Spitz. Il primo anno di vita del bambino, Giunti – Barbera, 1971, Firenze.